Parte 1° - Sabato dei fuochi

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Cenni Storici

Il Sabato in Albis o Sabato dei Fuochi è l'inizio della Festa della Montagna o della Festa della Madonna di Castello. Festa, celebrazione o, più propriamente tra gli anziani, Devozione, che si protrae dal sabato dopo Pasqua ininterrottamente fino al 3 maggio, Festa della Croce. Il periodo della festività, quindi, non ha una durata costante, ma dipende dalla cadenza della festività della Santa Pasqua.
Già dal Venerdì in Albis risuonano dall'alto del monte, diretti a tutti gli abitanti della piana, i colpi scuri dei fuochi d'artificio ad annunciare che le paranze sono già sulla cima più alta del Monte Somma, geograficamente la Punta del Nasone, il cosiddetto Ciglio (h.1132m). Questa è proprio la sommità che si trova centralmente in corrispondenza diretta dell’abitato di Somma Vesuviana e del santuario di Santa Maria a Castello. I partecipanti sono qui giunti per portare tutto quanto occorre per la celebrazione religiosa e folclorica del tradizionale Sabato dei Fuochi. Il percorso in ripida ascesa è lungo e accidentato e quindi bisogna tempestivamente prepararsi per trovarsi pronti per tutte le ottemperanze dovute per tale giorno. Il disperdersi echeggiante dei botti saluterà i parenti confortandoli della buona riuscita della salita e annuncerà a tutti l'inizio della festa. Alla cima risponderanno altri botti che si innalzano dai vari Tuori, che si succedono radiali sull’ampia dorsale. La partecipazione non è solo dei sommesi, ma di tutti coloro che, distribuiti in vari paesi, sono insediati sulle verdeggianti pendici della montagna.
Ma qual è il significato e l'origine di questa festa? Nacque spontanea in età precristiana in relazione all'origine ignivoma del monte per esorcizzarne la potenza distruttrice del fuoco, originato delle terribili eruzioni, e propiziarsi lo stesso monte, adorato sotto forma di Dio, probabilmente Giove Summano, accendendo sul suo dorso piccoli fuochi in suo onore. Lo stesso fuoco che ricorre in tutte le manifestazioni pubbliche del nostro popolo in cui si vedono accomunati elementi pagani ed elementi cristiani, in cui gli antichi riti si sono fusi nei secoli con scadenze religiose cattoliche  (ricordiamo il fuoco onnipresente in tutte le celebrazioni sacre e profane di Somma: i falò, o faraoni, intorno a cui si banchetta durante la festività  di Sant' Antuono, i falò sacri della processione del Cristo morto il venerdì santo a cui si attinge per accendere i ceri, i falò sulla dorsale del monte a ricordare la pericolosità  dell'altura e il rientro notturno della miracolosa statua, per poi culminare nelle  migliaia di fantasmagoriche fiammelle accese  nei vicoli e negli androni durante la Festa delle Lucerne).
Dicevamo che la festa del Sabato in Albis è certamente una festa d'origine pagana su cui si è innestata, con l'avvento del cristianesimo, la celebrazione religiosa rivolta alla Madonna più invocata dai sommesi: la Madonna di Castello. Una Madonna scelta dal popolo contadino per le caratteristiche specifiche molto vicine al suo mondo: essa nell'aspetto ripete le fattezze di una robusta coltivatrice, dove non prevalgono le finezze gentili né l’eleganza del portamento, ma la soda fierezza e la robusta corporatura di una madre di una famiglia contadina: la Mamma Schiavona. Nel 1622 Padre D. Carlo Carafa, desiderando ritirarsi solo per qualche tempo in un luogo solitario e immergersi serenamente nella contemplazione delle cose celesti, conoscendo il luogo perché aveva una sua proprietà non molto lontano, nel casale di Brusciano, in una zona di campagna che si trovava nella pianura al di sotto della chiesa di S. Maria del Pozzo, scelse proprio quel luogo ritenendolo il più adatto. Certamente il pio religioso nell’insediarsi nella zona del vecchio castello di origine normanna, riparato spesse volte dagli Angioini con il contributo di diverse comunità dell’Agro acerrano e nolano, scelse come luogo per celebrare la messa proprio la chiesa di S. Maria a Castello. Esisteva da tempo sul luogo anche la gotica cappella angioina di S. Lucia, che, malgrado godesse di rettorato nominato dalla Santa Sede nella persona di Bartolomeo Capograsso, non era in ottime condizioni e si trovava all’interno del luogo fortificato. La chiesetta prescelta, costruita qualche centinaio d’anni prima dal contadini locali sulle murature settentrionali dell’arce che si affacciavano sulla pianura, era più accogliente e più panoramica ed aveva maggiori possibilità di ampliamento per le stanze dei religiosi che avrebbero mantenuto le stesse caratteristiche di panoramicità e accoglienza del santuario. Della risistemata costruzione l’umile frate si avvalse per celebrare messa ed in essa vi collocò una statua della Beatissima Vergine Maria, scolpita in legno, a cui fu tributata una notevole venerazione anche da tutte le persone del sottostante borgo di Somma. Il Carafa si fermò in questo luogo solitario per un lungo periodo e qui meditò, nella calma riposante della montagna, le regole dell’Ordine dei Padri Pii Operai, che tanto successo ebbero il quel tempo, forse ispirandosi anche al lavoro dei modesti coltivatori del monte. Poi, a causa dell'ampliarsi del suo ordine, fu costretto ad allontanarsi da questo luogo di meditazione per fondare un’altra casa per i suoi religiosi nella zona di S. Maria di Monte di Core, fra Maddaloni e Caserta. E poiché aveva acquistato il territorio del Castello di Somma con la vendita dell'unica sua proprietà, un gregge di pecore, fu costretto a rivenderlo per comprare il terreno per il nuovo insediamento religioso. Nel 1631 lasciò la reggenza della chiesetta sommese ad un eremita perché la custodisse e tenesse accese le lampade dinanzi alla sacra immagine di Maria. Anche dopo la partenza di Padre D. Carlo Carafa non venne meno il fervore religioso e l'attaccamento del popolo di Somma e dei paesi viciniori alla chiesetta e al culto della Vergine Maria di Castello, venuta così a denominarsi per l’ubicazione nell’ambito della vetusta rocca normanno-sveva. E già in quest’epoca frequenti erano le visite e i pellegrinaggi in questo luogo ameno non solo per la devozione all’immagine sacra, ma anche per trascorrere una piacevole sosta nell’intervallo del duro lavoro dei campi. Ma il 16 dicembre del 1631, alle due di notte, il vicino vulcano ebbe una delle più rovinose eruzioni dopo quella pliniana del 79. Tra gli edifici colpiti dalla furia del Vesuvio vi fu anche la fabbrica della chiesa di Castello. Insieme alle murature andò distrutta anche la statua della Madonna, i cui fedeli, dopo ansiosi scavi, recuperarono al di sotto delle macerie e dei detriti calati dal monte solamente la testa inviata poi a Napoli affinché un esperto scultore ne riscolpisse il corpo disperso. L’artista, però, occupato in altri lavori, trascurò l'opera per un lungo periodo di tempo. Ed ecco verificarsi uno dei miracoli più conosciuti operati dalla Madonna di Castello. Aveva questo scultore una figlia storpia confinata in un letto, ma un giorno che il padre era uscito di casa lasciandola sola, questa si sentì chiamare per nome e fu esortata perentoriamente ad alzarsi e ad estrarre dalla cassa in cui era rinchiusa la testa della statua della Madonna e a consegnarla al padre affinché portasse a termine il suo lavoro. La fanciulla incredula si alzò e miracolosamente, camminò fino alla cassa da dove era partita la voce e ne estrasse la testa lignea della Vergine. Così guarita del suo male la trovò il padre al suo rientro in casa e, rendendosi conto della grazia ricevuta, si pose febbrilmente all’opera per completare la statua che riconsegnò ai sommesi rifiutando qualsiasi ricompensa. La scultura ricostruita, riportata a Somma, fu inizialmente posta nelle chiesa di S. Lorenzo, che si trovava in località S. Maria delle Grazie sulla strada per Castello, non essendo ancora agibile quella sul monte, che per molti anni, per negligenza e per mancanza di denaro, era restata incompleta. Ed ecco una seconda apparizione della Vergine di Castello ad una povera vecchierella, che devotamente accendeva lampade alla sacra immagine, ordinandole di recarsi dal signor Antonio Orsino, nobile discendente dei Conti di Samo, per pregarlo di completare a proprie spese la fabbrica di Castello. E così per le sovvenzioni del facoltoso signore, dietro le insistenti della devota e del popolo di Somma, la costruzione del santuario sul monte fu ripristinata intorno all’anno 1650. Un terzo miracolo si era verificato durante i lavori riattazione della chiesa. Necessitando di molta acqua per gli impasti di calce per le murature e dovendosi questa trasportare dal lontano paese in basso per la ripida strada a dorso di cavalli, muli e asini, le ansiose aspettative per la conclusione dei lavori si protraevano paurosamente. Ad un certo punto gli operai, fiduciosi nella Vergine, scavarono sulla spianata dell'alto tuoro, dove avvenivano i lavori e ad una profondità non eccessiva rinvennero una falda acquifera che risolse i notevoli problemi. C’è da dire, per riconoscere la miracolosità dell’evento, che il santuario è ubicato su un’alta e arida balza tufacea, isolata tutt’intorno da profondi valloni. I pozzo scavato è in realtà quello a cui fino a pochi decenni fa attingevano soddisfatti tutti i fedeli in occasione della festa della Madonna di Castello e si trovava sulla destra della facciata del santuario, dal lato dell’ingresso alla zona delle celle, attualmente del tutto coperto. Fu così poi che dalla chiesa di S. Lorenzo l’immagine benedetta fu processionalmente trasportata nella sua originaria residenza, accompagnata dal clero e dal popolo proprio nell’ottava di Pasqua e perciò da allora in quel giorno tradizionalmente si celebra la sua festa.
E qui si riallaccia il discorso dei fuochi. La statua fu trasportata di sera tardi verso il santuario in alto sulla dorsale della montagna e fu necessario illuminare il percorso accidentato con frequenti fuochi lungo i bordi della strada. Gli stessi fuochi, che precedentemente erano accesi nello stesso periodo per la festa pagana dedicata alla montagna, furono così abbinati alla festività della Madonna di Castello e la loro suggestione si è così perpetuata nei secoli nella ricorrenza del Sabato in Albis. È un fuoco purificatore e propiziatorio per tutti gli abitanti della zona e la particolare manifestazione degli attuali fuochi pirotecnici è anche un segno di perpetuazione della tradizione. Le paranze, in questo giorno molto numerose, si recano in varie parti della montagna ed assolvono annualmente ad un rito tramandato da generazione in generazione. Si radunano in luoghi prestabiliti prima del sorgere del sole e, con lo scoppio della prima granata, iniziano la scalata. È una salita non facile per l’accidentato percorso, ma malgrado ciò viene affrontata da giovani e da non più giovani con lena e con spirito di sacrificio percorrendo i viottoli erti e scoscesi con un pesante bagaglio sulle spalle: ceste con cibo, vino, fuochi d’artificio e quant’altro occorre per trascorrere in allegria un’intera giornata. Dopo aver ben preparato il luogo dell'accampamento riparandolo dal sole e dal vento con steccati di frasche di castagno e con ginestre, tutti si apprestano ad ascoltare la messa, un tempo officiata alla base di una grande croce composta di enormi travi di legno poi sostituita da una con barre di ferro, davanti alla cappellina eretta nel 1984 dagli stessi fedeli della paranza del Ciglio. In passato non sempre il prete era presente e quando mancava la sacralità del rito era sostituita da una manifestazione che rasentava il profano pur essendo sentita come profondo momento religioso. Tutti gli astanti si riunivano al centro del Tuoro del Ciglio alla base della croce e ad un cenno del Capo paranza si inginocchiavano e sul capo chino ricevevano dallo stesso la benedizione impartita, oltre che con semplici parole di buon augurio per le future scalate, con l’abbondante aspersione generale effettuata bagnando un rametto di frondosa ricinia (querciolo) nel generoso vino locale. Quando invece la santa messa viene officiata dal sacerdote tutti i presenti possono accedere alla somministrazione dell’eucarestia che non necessita di confessione, essendo considerati espiati i propri peccati attraverso le sofferenze patite durante la dura ascesa alla cima del monte. Sui volti dei partecipanti in quei rituali momenti si legge la piena compartecipazione e il sentito desiderio di avvicinarsi al divino, che a quell’altezza, in presenza di un panorama infinito, sembra essere più vicino. Poi si ripetono le manifestazioni consuete di ogni anno: la benedizione della bandiera tricolore, che, legata ad un’alta pertica, sarà issata sulle cime degli alberi più prossimi alla località prescelta dalle paranze per la sosta per indicarne la presenza; una sonora scarica di botti innalzati al cielo da enormi mortai qui trasportati con fatica indicibile; il festoso allestimento del pranzo e i primi accenni al ballo. La preparazione del pranzo è accurata e quasi una celebrazione religiosa, pranzo che ripete quello della vigilia della Pasqua di Resurrezione dove è severamente bandita la carne. Il vino scorrerà a fiumi e guai a chi osa rifiutare un bicchiere del prezioso nettare prodotto sullo stesso monte offerto dai generosi compartecipanti della paranza! Anzi, quasi simbolicamente, ritornerà alla terra allorquando la parte residua sarà, ermeticamente tappata in bottiglie, sotterrato nella fredda sabbia per essere utilizzato, invecchiato, nella prossima ascesa. Nel frattempo alcuni della paranza si sono distribuiti per le selve per raccogliere la legna necessaria per i falò che si innalzeranno al centro del tuoro utilizzando una particolare tecnica con l’agganciamento successivo di ramature di lecci ad un alto tronco di castagno che fa da sostegno e infiorandoli con rami di ginestre. I continui botti salutano i nuovi arrivati e si spandono nella vallata riecheggiati da altri affioranti dalla vegetazione delle varie parti del monte dove si sono fermate le diverse paranze.
La Devozione non si riscontra solamente sulla cima del monte, ma in molteplici località prescelte ed occupate dagli avi e divenute sedi abituali di raduno, dopo decenni di frequentazione da parte di successive generazioni. La Traversa, lo Gnunto, il Vallone di Castello, le Gaude, le Torole, ecc sono i luoghi consueti per il territorio del comune di Somma Vesuviana, ma anche altri paesi vicini compartecipano dalle balze montane appartenenti ai loro comuni, specie i confinanti Ottaviano, Sant’Anastasia e Pollena. Tutta la conica superficie del monte ha la sua parte nella festa del Sabato dei fuochi. A notte fonda c’è infine il rientro tra balli e canti sul suono della tammorra e la conclusione con la consegna della tradizionale pertica al familiare più caro.

 
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